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Ni pena, ni miedo, ni luna

Ni pena, ni miedo, ni luna

L’ennesimo sbuffo impaziente si disperde in una nuvola multiforme confusa con quella nebbia così lieve che pare appiccicarsi alle linee indistinte della notte. L’uomo si ciondola lentamente contro la parete, ben nascosto dentro il bavero sollevato del pesante cappotto scuro di foggia marinaresca, debolmente rischiarato dall’illuminazione che a fatica supera la soglia della desolata saletta della biglietteria.

La piccola stazione è spettrale ma sorprendentemente rassicurante nella sua anonima compostezza notturna; sulla stretta banchina le sottili pozzanghere sono appena disturbate dal cauto nevischio che educatamente ne bacia la superficie addormentata, mentre il chiarore distante della luna si affaccia raro e sfocato come appannato dal vapore disegnato su uno specchio.

Dell’ultimo treno non rimanevano che gli echi del vociare di passeggeri, indistinti nel loro incedere a capo chino mentre roteano freneticamente gli ombrelli ed i mezzi sigari spenti tra le labbra. Donne senza accompagnatore avvolte nei soprabiti con i colletti di pelliccia comprati per noia nelle boutique à la page dell’Avenida General Paz… anziani funzionari di Belgrano con il giornale del mattino custodito nel risvolto della giacca e una tazza di mate ormai vuota che penzola dalla mano stanca come un’abitudine senza più valore… vedove che attendono la quotidiana coincidenza per la Recoleta stringendo composti mazzi appassiti di lavanda e gigli il cui tenue profumo è anch’esso una memoria sbiadita… portuali di Núñez che contrabbandano amori presunti e chincaglieria cantonese nel barrio chino… minute violiniste che si affrettano lungo i fianchi dei vagoni in sosta salutando le compagne del conservatorio di Banfield con le mani esili che paiono pizzicare l’aria…

L’ombra immobile dell’uomo si fa largo tra quella folla di fantasmi fendendo la massa informe come un faro che sovrasta lo scorrere del Rio de la Plata nell’oscurità. Assorto o semplicemente infreddolito — cristallizzato in quegli attimi penzolanti dalle lancette ferme del grande orologio che veglia sopra la sua testa — il suo sguardo talvolta volge fugace alla panca di legno e metallo scurito al suo fianco, come a sorvegliare l’anonimo involucro cremisi che vi è posato sopra. Lì nei pressi un gattone accoccolato solleva una palpebra con pigra circospezione tutta felina: sul minuscolo naso una civettuola striatura bruna che conferisce a quel fagotto raggomitolato una vaga espressione impertinente.

Un’indole indubbiamente curiosa lo porterà sicuramente ad elaborare fantasiose congetture sulla natura del personaggio che con lui condivide questa silenziosa porzione di stelle nascoste, asfalto e nebbia.

E’ senza dubbio un assassino, un bieco sicario, un pistolero forestiero arrivato forse da Salto con la corriera del mattino. Un uomo di striminzite parole e radi scrupoli, diretto in città per togliere di mezzo un panciuto signore che con metodicità — incautamente maldestra — suole sorseggiare un nero elisir mattutino tra i tavoli malfermi della caffetteria italiana di Viale 25 de Mayo. Lui lo aspetterà pazientemente nel ballatoio del quarto piano, dove la timida luce di Gennaio a stento trapela dal lucernaio, rigirando tra le mani la carta stropicciata che confezionava un torrone candito, custodito nel misterioso bagaglio insieme ad una rivoltella ed una mezza dozzina di pastafrolle alla crema di latte. Il frequentatore del caffè rincaserà come ogni sera basculando affannosamente nella palazzina color rosa confetto, poi eviterà l’opprimente scalata di un plotone di gradini pronti alla sua esecuzione scegliendo l’angusta comodità modernista di un ascensore cigolante, per attestarsi ansimante sul limitare della porta di casa tergendosi la fronte e affilando il ciuffo biondastro sulla fronte paonazza. Sarà in quel preciso istante che lui uscirà dalla penombra e arriverà alle sue spalle librandosi nell’aria, confuso tra il pulviscolo e i riflessi intermittenti irradiati da una applique di bronzo annerito; poi si udirà soltanto un rumore indefinito — come di inesorabile trappola per topi — seguito dall’ultimo squittio lamentoso del paffuto ratón crollato al suolo, col rotondo viso rubizzo rivolto in avanti ad urtare la porta di casa che scostandosi aprirà uno scorcio sulla sua desolante quotidianità.

Il velo di neve si fa via via più consistente lungo l’acciottolato e l’acciaio dei binari sottostanti la pensilina. L’uomo sprofonda sempre più giù all’interno del suo cappotto, con le mani serrate nelle tasche che paiono senza fondo e si perdono nei recessi dei suoi pensieri, cercando invano di afferrarne la scia sfuggente. Una folata più gelida ed insistente delle precedenti, sospinta dall’immagine di quel potenziale agguato ancora vivida, ha turbato il placido sonnecchiare del gattone che si rianima dal suo torpore con malcelato fastidio, carezzandosi nervosamente un orecchio con la zampa di pelo candido.

Meglio ricalibrare la fantasticheria. No, dopotutto in quel pacco così ben confezionato deve essere custodito qualcosa di ben più prezioso di una banale pistola arrugginita.

L’uomo è sicuramente un tanguero, un formidabile ballerino conteso da tutte le milongas che brulicano nei vicoli e nei viali di Las Cañitas, Once e Villa Soldati. E lì, in quella scatola dall’aspetto così comune, è ovvio siano riposte le sue scarpe di cuoio e vernice luccicante, mentre intanto nella sua mente così assente si rincorrono i passi leggeri e le figure minuziose, il volteggio degli abiti curati e dei calici di vino rubino, in un incessante turbinio immerso nelle note del musicalizador, commisto al brusio malizioso della sala affollata. I suoi occhi scuri di naufrago d’oltremare si perdono lungo l’infinito orizzonte delle rotaie, ormai indistinte sotto la coltre innevata, in cerca di altri occhi, incrociati infinite volte nel movimento circolare di un salone in penombra, fissati per attimi sempre troppo brevi e sfuggenti alla scoperta di nuove sfumature e recessi stellari da esplorare.

Anche il micione segue il ritmo immaginario del sensuale ballo, si rigira sulla schiena improvvisando una goffa piroetta per raggomitolarsi nuovamente in un più congeniale contegno dormicchiante.

Il pigro vivacchiare non inganna affatto il minuzioso spirito d’osservazione — trattasi quindi di gatta? — ora utile a riconsiderare nuovamente le teorie sull’impenetrabile identità dello sconosciuto dai grandi occhi a mezzaluna. Le dimensioni ridotte della scatola escludono — non vi è dubbio — che all’interno siano riposte quelle eleganti calzature da ballerino. Un sibilo impercettible, tanto simile al ruffiano suono delle fusa, anticipa un nuovo bizzarro volo di fantasia.

Ora l’uomo percorre a passi distesi l’Avenida Monroe scansando nervosamente le pozze d’acqua che riverberano sull’asfalto il suo volto, compresso in una maschera impastata di agitazione ed ingenua felicità, moltiplicandolo al suolo in innumerevoli schegge di specchio in frantumi. Ogni svolta, ogni portico, ogni strettoia alimenta il torrente delle sensazioni, minacciando rovinosi straripamenti oltre gli argini delle sue certezze.

L’esitante cammino si arresta al cospetto di un palazzo imponente, dalla facciata a tratti scrostata e dai balconi rifiniti in ferro battuto, sorprendentemente troppo minuscoli per contribuire all’armonia architettonica del pretenzioso edificio. Fermo nei pressi del goffo portone d’ingresso, l’uomo rovista concitatamente nelle tasche dalle quali estrae alcuni biglietti accartocciati — vecchi conti di taverne forse mai saldati sino in fondo — ed una custodia ovale smaltata. Se solo ne sollevasse leggermente il coperchio, l’intero intreccio di vicoli e cortili, compresi i palazzi circostanti, risuonerebbe della malinconica melodia imprigionata e costretta al silenzio all’interno.

Ma lui, puntuale ad ogni tramonto, egoisticamente si ostina a mantenere ben serrato quello scrigno, temendo che il prezioso contenuto si disperda come polline in una folata di vento, sia travolto da un rapace scroscio di pioggia per eclissarsi in fondo al mare, preda di un oblio infinito.

Quindi accosta per alcuni attimi il carillon inerte all’orecchio, ingannandosi con la convinzione di poterne rubare le impercettibili vibrazioni incatenate all’interno; poi occulta nuovamente la scatola incantata dentro il petto, volgendo un ultimo sguardo ad una finestra semichiusa da cui sporge un vaso di vetro, fragile custode di uno stelo appassito appartenente ad una qualche fioritura ormai dimenticata. Il buio incombe, la stazione è poco distante: anche oggi ha abbandonato qualcosa di sè aldilà dei binari.

L’alba sta giungendo con i suoi bagliori al termine della galleria. Scuotendosi dalla fissità sovrappensiero, l’uomo spazza via i coriandoli di neve fresca appuntati sul cappotto, disperdendo in un solo istante le inquietudini e le incertezze della lunga notte. Con cura poi raccoglie l’enigmatica scatola depositata sulla panchina e con un rapido movimento delle dita ne ripulisce la superficie liscia dal candido drappo ghiacciato, avviandosi verso il finale del racconto. Respiri lenti e modulati fluttuano verso il cielo amaranto assiepandosi come al culmine di un corteo di ciminiere. Chinandosi morbidamente verso un angolo ben riparato, l’uomo apre con delicatezza la scatola vuota.

La gatta si stiracchia annoiata, annusa l’aria umida e con un balzo aggraziato fende le diffidenze, sparendo all’interno della sua nuova casa.

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